Joussef Dagay - Marocco - massimoallegroreportage

Vai ai contenuti

Menu principale:

Joussef Dagay - Marocco

Mostre > Immigrazione Milano
Youssef Daghay è nato il 19 settembre 1980 a Casablanca in Marocco. Il padre si chiamava Kassim ed è mancato quando Youssef aveva un anno. La madre, Hania Alatiki fu investita da un’auto quando Youssef aveva tre anni. Malgrado tre operazioni subite, Hania non potè tornare a camminare come prima e per questo motivo perse il lavoro nella fabbrica di fiammiferi dove era impiegata. Youssef ha un fratello più grande di lui, Muhammed, che fa il calzolaio ed è sposato con Khadija Makhlouf, con cui ha avuto tre figli: Ohtman dieci anni, Sofian nove anni e Saad cinque anni. A scuola Youssef ha studiato elettronica. A quindici anni ha interrotto gli studi ed ha trovato impiego in un negozio di cellulari come tecnico riparatore ed esperto in controllo remoto per televisori. Negli anni successivi ha cambiato posto di lavoro ben sei volte, spostandosi in altri negozi dello stesso settore. Per mantenere la famiglia ed aiutare la madre, che aveva bisogno di medicamenti molto costosi, Youssef portava il lavoro a casa e spesso lavorava fino a tarda notte. Dopo nove anni di lavoro guadagnava circa cinquecento Euro al mese. I soldi non bastavano e così decise di emigrare in Europa per cercar fortuna. Non avendo il permesso per venire in Italia direttamente dal Marocco, inizialmente Youssef andò in Turchia dove non era richiesto il visto. Dopo un mese a Istanbul andò a Smirne per imbarcarsi. Quel giorno il mare era grosso. Il motore della nave andò subito in avaria e la nave fu costretta a tornare in porto. Spaventato Youssef decise che avrebbe intrapreso il suo viaggio via terra. Nei giorni successivi, insieme ad altri emigranti africani, fu accompagnato da due ragazzi del Kurdistan al confine con la Grecia. Passato il confine, il suo gruppo fu intercettato dalla polizia, che mise tutti migranti nel campi di Orsiada. I controlli durarono diciotto giorni durante i quali i migranti venivano continuamente interrogati. Il posto era molto pulito e ai migranti venivano dati due pasti al giorno. Al termine del soggiorno gli fu rilasciato un visto valido tre mesi, rinnovabile alla stazione di polizia.Youssef si spostò ad Atene. Trovare lavoro era difficile. Faceva l’ambulante e vendeva quello che capitava: cellulari, vestiti, borse, piccoli elettrodomestici. Era un lavoro insicuro e pericoloso. Quando la polizia ti fermava per un controllo sequestrava tutto il materiale. Fortunatamente a Youssef capitò solo una volta. Youssef ha un brutto ricordo del periodo ad Atene. Dice che in Grecia c’è molto razzismo e che i mussulmani sono trattati con disprezzo. Ad Atene viveva in una grande casa con altri venti immigrati provenienti da paesi di Africa e Medio Oriente. Pagavano ognuno centro euro al mese di affitto. Erano in troppi e così, dopo tre mesi, Youssef si trasferì in un’altra casa comune dove visse con altri cinque immigrati marocchini. Dopo sei mesi prese in affitto una piccola casa, offerta da un poliziotto per duecento euro al mese. Lui pagava regolarmente e il poliziotto era corretto. Di questo periodo ricorda le ronde notturne che fermavano per strada le persone, che, se non parlavano greco, venivano ammazzate di botte.Youssef fu fermato solo una volta, ma riuscì a scappare facendo perdere le sue tracce. Youssef dice che la polizia è connivente con le ronde. Vede ma si gira dall’altra parte. Anche la gente normale non è amichevole. I greci non sono accoglienti con gli immigrati e sono molto aggressivi. Dopo un anno e mezzo ad Atene, Youssef andò a Creta sperando di trovare una situazione migliore. Raccoglieva olive per quattordici ore al giorno per trenta euro di salario. Un lavoro duro e mal pagato. Dopo quattro mesi decise di tornare ad Atene. Fu preso dalla polizia col permesso di soggiorno scaduto e messo in prigione dove, senza motivo, rimase otto mesi. Per lo stress si ammalò ed ebbe problemi di cuore. Youssef ricorda che i prigionieri come lui erano trattati come animali. Non venivano curati ed erano insultati, picchiati ed oltraggiati. Youssef pensa che la Grecia guadagni soldi grazie al business dei clandestini. Dice che l’Europa paga centro euro al giorno per ogni clandestino ospitato nei centri, ma i clandestini ricevono un trattamento infimo, non hanno cibo sufficiente, e per loro non vengono spesi tutti i soldi stanziati.Dopo otto mesi Youssef fu rilasciato e decise di cambiare paese e venire in Italia. Per farlo via terra doveva passare tutti gli stati della ex Jugoslavia. Il primo però fu l’Albania. Andò al posto di frontiera di Igoumenitsa ma fu respinto. Tentò presso altri valichi ma ovunque successe lo stesso. Dopo tre respingimenti, decise di passare come clandestino. Insieme ad altri immigrati si fece lasciare a due chilometri dalla frontiera e passò per la boscaglia evitando i controlli. Camminarono tre giorni per raggiungere il confine col Montenegro. Non passavano sulle strade per paura di essere catturati e rimandati in Grecia. Quando avevano fame cercavano ospitalità presso qualche famiglia dei piccoli villaggi che trovavano sulla strada. Con loro gli albanesi furono sempre ospitali. Per non rischiare di essere scoperti dormivano nella boscaglia. La notte del quarto giorno passarono in Montenegro. Qui, mentre cercavano ristoro in un bar, furono individuati da due poliziotti in borghese e portati in un centro di identificazione dove Youssef rimase quattro giorni al termine dei quali gli fu concesso un permesso di soggiorno di un mese.Il paese successivo da attraversare era la Bosnia. Per due volte Youssef cercò di entrarvi regolarmente ma non gli fu concesso. La terza volta cercò di passare attraverso la boscaglia ma fu subito individuato dalla polizia, portato in un nuovo centro di identificazione, per fortuna ben organizzato e dignitoso, e poi respinto in Montenegro, dove il permesso di soggiorno gli venne prorogato. Cercò nuovamente di tornare in Bosnia attraversando la boscaglia. Questa volta fu più attento. Aveva capito quali zone evitare per non farsi prendere. Viaggiava sempre lontano dalle strade. Arrivò al villaggio di Tripini dove chiese aiuto al Centro Islamico, dove rimase due giorno. Gli fu dato cibo, vestiti nuovi e del denaro per continuare il suo viaggio. Gli fu anche pagato un taxi per la città di Monstar dove incontrò degli amici delle persone consociute al centro islamico, che lo avrebbero aiutato. Dormì a casa di queste persone che la mattina dopo lo portarono alla stazione dei bus e partì per Sarajevo. Anche a Sarajevo fu assistito da persone collegate al Centro Islamico di Tripini. Proseguì con un bus per la Croazia ma dopo solo dodici chilometri di strada il bus subì un controllo e gli agenti lo fermarono e lo portarono alla Centrale di polizia per accertamenti. Finì di nuovo in un centro per immigrati a Racoviza dove rimase tre mesi. Non era recluso. Poteva uscire ed andare al vicino villaggio di Elija. L’edificio del Centro non era bello, ma la gente era amichevole e rispettosa. Fece amicizia con quattro ragazzi bosniaci che gli regalarono vestiti e soldi e lo portarono in auto al confine con la Croazia.Youssef, che ormai aveva capito che non sarebbe mai riuscito a passare regolarmente, attese la notte e ancora una volta si mise in cammino per passare il confine attraverso la foresta. Faceva freddo e c’era la neve. Quella notte rischiò l’assideramento. Aprì lo zaino e si mise addosso tutti i vestiti che aveva. Mangiò qualcosa e camminò quattro ore accanto alla strada per non essere visto. Per non essere rimandato indietro decise che, nel caso in cui fosse stato fermato dalla polizia, si sarebbe dichiarato profugo siriano. La mattina arrivò ad una chiesa e attese l’arrivo di qualcuno per chiedere aiuto. Non arrivò nessuno. Fece l’autostop. Si fermarono due ragazzi ubriachi che lo lasciarono vicino ad un posto di polizia. Youssef andò ad identificarsi ed a chiedere asilo politico. Fu controllato e dormì in stazione. Il giorno dopo i poliziotti lo portarono in un centro per immigrati a Kutina dove, ancora una volta, subì la solita trafila di controlli. Di giorno era libero di uscire e la sera doveva rientrare entro la mezzanotte. Era inverno e nevicava parecchio. Youssef non poteva proseguire il suo viaggio in quelle condizioni. Quando la neve finì attese un solo giorno e la mattina dopo, alla riapertura del cancello, uscì come se volesse andare in paese, ma non tornò più. Col bus andò a Zagabria e quindi a Rijeka. Conobbe quattro siriani con cui condivise un taxi che li portò a novanta chilometri dalla frontiera. Non volevano farsi portare troppo vicino al confine perché temevano che il taxista potesse denunciarli. Camminarono per tre giorni sotto la pioggia. Cibo e acqua finirono presto e per i giorni successivi si nutrirono solo di neve. Youssef pregava Hallah. Arrivati vicino al confine videro una grande villa in montagna. Furono accolti da una coppia che dette loro cibo ed ospitalità. Dalla villa vedevano sotto Capodistria. Dopo due giorni l’uomo si offrì di aiutarli a passare in Italia. Li nascose nel suo camioncino e li portò alla frontiera. Passarono facilmente e in poco tempo furono a Trieste. Youssef ricorda che quando si salutarono all’uomo scendevano le lacrime dagli occhi. Gli baciò il cuore e gli disse solo “Vai…”. Youssef e i quattro siriani andarono a lavarsi in una stazione di servizio dove si salutarono. Youssef rimase in stazione. Il bar stava per chiudere ma il cinese che lo gestiva lo riaprì per dargli della pizza. Dormì in stazione e il mattino dopo alle sei, prese il treno per Milano. Youssef conosceva dei connazionali che vivevano a Lugano e così, appena arrivato a Milano prese subito un treno per la Svizzera. Rimase in Svizzera quindici giorni ma non trovò nulla da fare e così decise di tornare a Milano. Nel primo periodo a Milano Youssef ha vissuto in una casa condivisa con altri immigrati e poi è stato ospite per qualche settimana presso una famiglia italiana. Persone di buon cuore. Non volendo approfittare troppo della situazione si è poi trasferito al dormitorio pubblico. Un ragazzo palestinese lo ha aiutato a trovare un primo lavoro. Ma era un lavoro in nero perché senza documenti e senza permesso di soggiorno il lavoro non si trova. Il datore di lavoro, un elettricista, lo ha apprezzato per il suo lavoro e si è dichiarato disposto ad assumerlo non appena Youssef riuscirà ad avere il permesso di soggiorno e a regolarizzare la sua posizione. Per il momento Youssef deve aspettare una sanatoria e vivere in clandestinità.


 
Torna ai contenuti | Torna al menu